RITORNO A CASA
Il viaggio non fu lungo, ma alla vecchia seduta di fronte a me sembrò interminabile. Dava segni di impazienza. Era scarna ma robusta, capelli bianchi ancora folti, occhi pungenti, mani grandi maschili.
Accanto a lei una giovane donna cercava di calmarla. La vecchia non le dava retta, guardava fuori dal finestrino scuotendo la testa. Colsi una frase in dialetto: Andate pure avanti così, vi troverete il cemento in bocca.
Si rivolse a me: “Torno al mio paese dopo cinquant’anni.”
“Mia nonna – precisò la giovane – ha novant’anni. Si è messa in testa di morire dove è nata. Non vuole credere che, ora, è un paese fantasma. La sua casa è in pessime condizioni, i campi invasi dalle erbacce, i vicini sono morti… stiamo andando nel nulla.”
“Ho passato due guerre. Allora sì che era dura! Non mi spaventa più niente. Voglio ora solo una cosa: morire all’aria aperta.”
“Una fissazione – continuò la nipote – a Milano ha tutto: una bella casa, sei figli. Mia madre ha solo diciotto anni meno di lei, più sorella che figlia…”
“Quella – ghignò la vecchia – è già sotto terra!”
“Vede come è – riprese la nipote – non apprezza chi le vuole bene. Io, per esempio, mi sono presa la responsabilità di accompagnarla, di stare un po’ con lei.”
“Tu lì non ci resisti due giorni!”
Mi squadrò: “Ce la faresti tu?”
A togliermi dall’imbarazzo di una risposta squillò il cellulare. La nipote rispose a monosillabi, poi annunciò: “Lo zio verrà a prenderci in stazione con la macchina.”
“Avevo detto di volerci andare in corriera al mio paese!”
“Non c’è più l’autobus, nonna. La gente ora si muove in macchina.”
La vecchia si alzò di scatto. “Vado a pisciare.”
“Ti accompagno…”
Un gesto scostante e si allontanò.
“Lo zio vuole riportarla a Milano – sospirò la nipote – è tornato da poco, dopo anni, dall’Australia e vuole che vada a vivere con lui.”
Il treno si era fermato alla stazione di Piacenza. Diedi un’occhiata dal finestrino e notai fra tante teste in movimento quella bianca della vecchia.
“Sua nonna – dissi – ha mangiato la foglia. E’ scesa.”
“Che faccio ora?”
“Prenderà il treno successivo. Non ha altre alternative.”
“Lei non sa quante se ne inventa… L’ultima impresa è stata quando è fuggita dall’ospedale. E’ riuscita a farla in barba a medici e infermieri. Ha chiesto un passaggio a un automobilista… farà la stessa cosa, se non peggio: farsela a piedi.”
Mi prese le mani.
“Mi aiuta a dirlo allo zio?”
Per combinazione scendevo anch’io a Parma. Tornavo dopo tanti anni dove avevo passato l’infanzia. Volevo riprendermi il mio sguardo da bambina.
Ci incamminammo tenendoci per mano.
Lo zio, un omone dal colorito di chi ha vissuto una vita all’aperto, chiese senza preamboli: “Mia madre?”
“Ha deciso di andare da sola.”
“Che ci stavi a fare tu?”
Gli raccontai tutta la storia.
“Lo so, è testarda.”
Si passò una mano sugli occhi. Una mano grossa dalla pelle spessa.
“Di’ un po’, di terra ce n’è ancora?”
“Ettari incolti…”
“E la casa?”
“Va restaurata.”
“Questo è il meno. E’ il mio mestiere.”
La vecchia l’aveva avuta vinta, pensai con soddisfazione. Li lasciai lì sulla banchina. Ora tocca a me, mi dissi, sfogliare a ritroso l’album dei ricordi, soffermarmi su certe immagini, entrarci dentro anima e corpo.