Il mio primo viaggio l’ho compiuto piccolissimo attraverso i ricordi dei miei nonni, di mio padre, dei miei zii. Essi mi raccontavano del lungo cammino compiuto nel 1935 dalla famiglia per raggiungere quella terra così diversa e lontana, che tanta apprensione suscitava. La madre di mia nonna temeva per la loro vita: gli abitanti di quella terra avevano una brutta fama, giravano armati di coltello, erano considerati rissosi e irascibili.
I miei hanno viaggiato per lavoro e per costrizione (il nonno era ” ribelle”), ma tanti altri possono essere i motivi per cui ci si allontana dal luogo natio. E’ il topos più antico della letteratura.
Si viaggia per missione divina, per cercare la vita eterna, per conoscere, per avventura, per la salvezza dell’anima, per spiegare il mondo, per cercare l’assoluto, per creare identità di popolo. Avrebbero, però, mai potuto scriverne Virgilio, Dante, Swift, Conrad, Hesse, Ariosto, Goethe, Sterne, Cervantes, Tennyson, Joyce, Pound… senza il primo grande cantore del viaggio? Senza Omero e l’epopea di Ulisse il mondo non sarebbe lo stesso.
Colui che parte ha il ritorno ( nostòs) nel cuore. Il tema dominante del viaggio omerico è il desiderio di casa. Quando si va, la separazione è lacerante : ” Era già l’ora che volge al disìo/ ai navicanti e ‘ntenerisce il core/ lo dì c’han detto ai dolci amici addio” ( Purg. VIII). Il viaggiatore porta con sé la sua terra, la sua comunità. La nostalgia è la sofferenza ( algòs) che, unita al desiderio del ritorno, avvolge colui che si è distaccato dai propri cari nelle spire della malinconia.
Nell’Odissea non mancano altri ” ritornanti”: Nestore, Menelao, Agamennone. Torneranno a casa, ma non allo stesso modo. Chi felicemente, chi tragicamente, chi con difficoltà. Per tutti, però, non sarà come prima. Tutto è ormai diverso. Dopo anni di assenza loro sono cambiati, la propria terra è cambiata. Il ritorno è mai veramente possibile? Troppe cose si modificano nel tempo per pensare che quel pungente sentimento di nostalgia che attanaglia il viaggiatore non lasci poi il posto allo stupore, spesso amaro, dello spaesamento.
E se l’Ulisse omerico trova, nonostante gli anni di lontananza, Penelope ancora fiduciosa ad attenderlo, lo stesso non può dirsi per quello di Dante, irrequieto esploratore di sé e del mondo: ” né dolcezza di figlio, né la pietà/ del vecchio padre, né il debito amore/ lo quale dovea Penelopé far lieta/ vincer potero dentro a me l’ardore/ ch’i ebbi a divenir del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore”. E la dolce moglie dell’eroe acheo? Siamo sicuri che non sia anch’essa cambiata? Nel suo affascinante omonimo poemetto Rosaria Lo Russo scrive così di una Penelope stanca di attendere: ” zitta zitta decompongo l’imeneo chet’accolse/ a più non posso disfidando assalti di procio/ che m’annusa e sgrufa un porco approccio/ ma oggi invece temo te/ tremulo corpo baro”.
Il ritorno, insomma, è sempre problematico, sia per il viaggiatore, all’oscuro dei cambiamenti, che per la comunità d’origine, che avverte l’allontanamento come un tradimento, e ignora del tutto le fatiche fatte dal “suo” uomo in una terra straniera..
Uno dei migliori narratori calabresi degli ultimi anni, Carmine Abate, ha scritto ripetutamente di questa schizofrenica scissione fra vite vissute lontano e struggente desiderio della propria terra. Nei suoi romanzi egli mette in scena la sradicamento, il rapporto conflittuale con quella nuova e il legame irrisolto con le proprie origini. Ecco il dilemma: dover essere là e il non poter ( e voler) essere qui: ” Se ti dicono di restare parti; se ti dicono di partire, resta.”
A Luigi, Erminia, Silvano, Teo, Liliana, Rita, Mario il Trentino rimase sempre nel cuore, ma trovarono la loro casa in Calabria, la mia martoriata terra.