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II Edizione

Viaggio come ritorno nella geografia delle emozioni”
dedicato a Pippa Bacca
Galleria Vertigo Arte di Cosenza
Sabato 13 Settembre 2008 ore 18.30


Sabato 13 settembre alle ore 18.30 s’inaugurerà la nuova stagione artistica (la sesta) di Vertigo, il Centro d’arte contemporanea in via Rivocati 63 a Cosenza, con la mostra collettiva itinerante “Tornare @ Itaca”, curata dal critico d’arte Mimma Pasqua con la collaborazione del poeta e vice presidente di Vertigo Franco Gordano.

Sono 29 gli artisti partecipanti:
Salvatore Anelli, Patricia Bueno, Luciano Castellano, Luce Delhove, Mavi Ferrando, Franco Flaccavento, Rebecca Forster, Cesare Galluzzo, Alfredo Granata, Helene Gritsch, Anna Lambardi, Pino Lia, Giorgio Longo, Ruggero Maggi, Nadia Magnabosco, Marilde Magni, Marco Magrini, Tonino Milite, Giuseppe (Pino) Miniaci, Daniela Miotto, Giglio Pasotti, Salvatore Pepe, Lucio Perna, Lucia Pescador, Tarcisio Pingitore, Antonio Pugliese, Alfredo Pizzo Greco, Mirella Saluzzo, Vincenzo Trapasso, e da ogni parte d’Italia per soffermarsi sul tema del “Viaggio come ritorno”.

La mostra che durerà fino al 25 settembre approda da Milano dove nei mesi di maggio e giugno scorsi è stata ospitata alla Biblioteca Comunale Cassina Anna e alla Libreria Archivi del ‘900 e da Grimaldi dove è stata ospitata presso il Palazzo Comunale per tutto il mese di agosto e fa parte di un più ampio progetto che ha previsto anche serate di letteratura e poesia.

Francesca Rossoni abita e lavora a Milano. Appassionata di letterature francese, inglese e tedesca, ha svolto per anni attività di traduttrice. Si è inoltre occupata di editoria e uffici stampa per riviste specializzate. Scrittrice di molti monologhi e aforismi predilige i racconti brevi. Il suo libro di aforismi “Passepartout” ha ricevuto un’ottima recensione su Pen International. Gli stessi sono stati pubblicati su Selezione e recitati in teatro a Mordano e nelle botteghe degli artisti durante le manifestazioni del Festival di Spoleto. “Aeroplanini di carta” è stato pubblicato dopo menzione di un noto concorso letterario.

 

RITORNO A CASA

Il viaggio non fu lungo, ma alla vecchia seduta di fronte a me sembrò interminabile. Dava segni di impazien­za. Era scarna ma robusta, capelli bianchi ancora folti, occhi pungenti, mani grandi maschili.
Accanto a lei una giovane donna cercava di calmarla. La vecchia non le dava retta, guardava fuori dal fine­strino scuotendo la testa. Colsi una frase in dialetto: Andate pure avanti così, vi troverete il cemento in bocca.
Si rivolse a me: “Torno al mio paese dopo cinquant’anni.”
“Mia nonna – precisò la giovane – ha novant’anni. Si è messa in testa di morire dove è nata. Non vuole crede­re che, ora, è un paese fantasma. La sua casa è in pessime condizioni, i campi invasi dalle erbacce, i vicini sono morti… stiamo andand­o nel nulla.”
“Ho passato due guerre. Allora sì che era dura! Non mi spaventa più niente. Voglio ora solo una cosa: morire all’aria aperta.”
“Una fissazione – continuò la nipote – a Milano ha tutto: una bella casa, sei figli. Mia madre ha solo diciotto anni meno di lei, più sorella che figlia…”
“Quella – ghignò la vecchia – è già sotto terra!”
“Vede come è – riprese la nipote – non apprezza chi le vuole bene. Io, per esempio, mi sono presa la respon­sabilità di accompagnarla, di stare un po’ con lei.”
“Tu lì non ci resisti due giorni!”
Mi squadrò: “Ce la faresti tu?”
A togliermi dall’imbarazzo di una risposta squillò il cellulare. La nipote rispose a monosillabi, poi annunciò: “Lo zio verrà a prenderci in stazione con la macchina.”
“Avevo detto di volerci andare in corriera al mio paese!”
“Non c’è più l’autobus, nonna. La gente ora si muove in macchina.”
La vecchia si alzò di scatto. “Vado a pisciare.”
“Ti accompagno…”
Un gesto scostante e si allontanò.
“Lo zio vuole riportarla a Milano – sospirò la nipote – è tornato da poco, dopo anni, dall’Australia e vuole che vada a vivere con lui.”
Il treno si era fermato alla stazione di Piacenza. Diedi un’occhiata dal finestrino e notai fra tante teste in mo­vimento quella bianca della vecchia.
“Sua nonna – dissi – ha mangiato la foglia. E’ scesa.”
“Che faccio ora?”
“Prenderà il treno successivo. Non ha altre alternative.”
“Lei non sa quante se ne inventa… L’ultima impresa è stata quando è fuggita dall’ospedale. E’ riuscita a farla in barba a medici e infermieri. Ha chiesto un passaggio a un automobilista… farà la stessa cosa, se non peg­gio: farsela a piedi.”
Mi prese le mani.
“Mi aiuta a dirlo allo zio?”
Per combinazione scendevo anch’io a Parma. Tornavo dopo tanti anni dove avevo passato l’infanzia. Volevo riprendermi il mio sguardo da bambina.
Ci incamminammo tenendoci per mano.
Lo zio, un omone dal colorito di chi ha vissuto una vita all’aperto, chiese senza preamboli: “Mia madre?”
“Ha deciso di andare da sola.”
“Che ci stavi a fare tu?”
Gli raccontai tutta la storia.
“Lo so, è testarda.”
Si passò una mano sugli occhi. Una mano grossa dalla pelle spessa.
“Di’ un po’, di terra ce n’è ancora?”
“Ettari incolti…”
“E la casa?”
“Va restaurata.”
“Questo è il meno. E’ il mio mestiere.”
La vecchia l’aveva avuta vinta, pensai con soddisfazione. Li lasciai lì sulla banchina. Ora tocca a me, mi dis­si, sfogliare a ritroso l’album dei ricordi, soffermarmi su certe immagini, entrarci dentro anima e corpo.

Vittoria Zannini Palazzo Ha cominciato a scrivere poesie a otto anni e non ha più smesso. Ha pubblicato trenta libri, di cui cinque in prosa. Nel 1971 ha fondato l’Associazione Culturale “Il Salice” di cui è presidente a vita.
Tra i premi: Premio della Gavetta per l’attività giornalistica, Premio Andersen per la fiaba, Premio internazionale Quasimodo e Premio Gronchi per la poesia. Ha ricevuto nel 1976, l’Ambrogino d’oro del Comune di Milano.

 

I GIORNI

Non so perché tutto
ha sapore di addio

Eppure i prati sono ancora verdi
e sulle siepi sbocciano bianchi
piccoli fiori

L’aria è appena più fresca
l’azzurro appena più pallido
il passo appena più lento

Eppure tutto
ha sapore di addio..

tratto da: Le immagini, i giorni (Poesie 1997-2007)

Ada Celico è Critica Letteraria e Docente di Scrittura Creativa. Si presenta come autrice di narrativa in “Io, donna di Calabria – (1990)” e tra gli altri testi in “Il prato delle libellule (1994)”, che risulta premiato come opera inedita al concorso “Un libro per la scuola”, promosso da Millelibri Mondadori (1991). Con il testo ancora inedito  “Una casa di carta per mia madre”, compare tra “I nuovi talenti nazionali” nel concorso “Scrivere” Fabbri Editori (1997). Collabora con “Nosside” Centro Studi Ricerca e Documentazione Donna dell’ Università della Calabria.

 

Corso di Porta TicineseCoccinelle rosse per una bambina

Esule,
come i grandi della storia.
Mi dico
per silenziare le mie pene.
Ma è un dire
che fa sbocciare una risata
sui baffi di un grosso gatto
affumicato.

L’hanno appeso nella vetrina
a testa in giù.
Leggo: Modernariato anni ’50.
Tintinna la campanella della porta:
– Posso guardare? – chiedo
e faccio un salto,
un orso polveroso salta giù
e io mi scosto appena appena in tempo
perché non impiastricci
la mia giacca.
Rosso rubino, l’ho comprata ieri
sul banco di un mercatino dell’usato.

– Ciao! – una ranocchia mi saluta
mentre m’impiglio
a un lampadario addormentato
sul pavimento
a losanghe bianche e blu.

All’improvviso, mentre lavoro
o giro per casa
mentre ascolto musica
o rispondo
a offerte di lavoro inesistenti
un pianto terribile mi assale.
Un ricordo repentino si affaccia
il suono di una piccola voce
udita appena un’ora prima.

– Ho messo gli orecchini a coccinella.
Quando vieni?
Sono stata dal dottore stamattina.
Mi ha tolto un vermetto dal dentino.

Anch’io ho un verme
grosso come un drago.
Nascosto in qualche posto
mi sta mangiando il cuore.

Anch’io dal dentista andrò domani
ma senza coccinelle a orecchini.
Porterò due pendenti dondolanti
e tacchi a spillo
per inciampare prima.

– Quanto ci metti ad arrivare?
Io ti voglio!
Quanto è lunga questa strada?
Vieni prima!
Mi dice impertinente la vocina.

Rispondo, sorridente alla bambina
Che insiste per riavere la mia mano.

Giovanni Chiara è nato e vive a Milano. E’ autore di romanzi (Premio Bagutta 2000) tradotti in francese, tedesco, olandese e portoghese, oltre che autore teatrale (Premio Fersen 2004). Si occupa di divulgazione musicale e artistica.

 

ARCIPELAGO ITACA*
Volver“, mi sono sentito ripetere anche troppe volte, e “volver” significa tornare.
Chi lo diceva era mia moglie, spesso fra le lacrime. Era cilena, di madre danese e nonno marchigiano, rossa di capelli, la pelle di latte sempre in guerra contro il sole, alta e diritta, bella come una dea e matta come un cavallo.
La sua Itaca si chiamava Valparaiso, con quella sorta di reggia in cui era cresciuta nella ricchezza più ostentata e pacchiana, fra stuoli di servitori sfruttati e malpagati che le avevano fatta facile la vita.
Rimpiangeva tutto ciò dal bilocalino all’estrema periferia dove l’avevo portata, e fra noi ogni giorno era una secchiata in più nel già vasto oceano delle incomprensioni. Finché si è messo di mezzo l’oceano vero, per una veloce Odissea verso la sua dorata Itaca.
Ma Itaca, a raggiungerla:
“Non so, mi sembra tutto diverso da prima, non mi trovo più, mi sembra di essere stata via cent’anni” mi ha detto al telefono, nel suo inglese stentato che faceva il paio con la stentatezza del mio: i matrimoni possono andare a rotoli anche per difetto linguistico, finisce sempre per mancare la parola adatta al momento opportuno.
Nell’anima Itaca non è un’isola che taglia l’orizzonte, ma un arcipelago dalle molte isole, tutte con lo stesso nome. Non il ritorno, perciò, ma i ritorni, salvifici di meta da raggiungere e ingannatori nella loro speranza di farci rivivere ciò che si desidera ritrovare, né l’esperienza riesce a vincere la barriera dell’inganno, e a dirci che nulla sarà più come l’abbiamo custodito dentro di noi. I ritorni alle Itache di ciò che è stato dovrebbero regalare vita, invece dissotterrano fossili della memoria: ci si aspetta di immergersi in quei mari, al contrario si trovano rocce e schegge color terra di conchiglie dalle esistenze lontane.
In ognuno di noi palpita l’irrequietezza di un piccolo grande Ulisse, che ci fa mentitori al punto che, per meglio ingannare l’inganno, ci rassettiamo d’istinto prima di metterci davanti allo specchio che invece dovrebbe dirci come rassettarci.
E per i più questo Ulisse non è quello di Dante, acceso dalla sete di conoscenza, o quello del viaggio per il viaggio di Kavafis, ma l’altro, minimo e intimo di Pascoli, che torna a Itaca e, per il tanto che ha mentito a se stesso ricordandola, non la riconosce. Perché, forse, la voglia di ingannarsi tornando è nata insieme con il primo uomo, dopo la sua cacciata da un’Itaca chiamata Eden.
Lei, comunque, nella sua Itaca, per quanto l’abbia trovata mutata, è rimasta.
Giovanni Chiara

* Da “Volver”, Giallotre, TRE del dicembre 2006

Liliana Marchi è nata nel 1956 figlia di un contadino mantovano e di una pianista milanese. Laureata in Storia medievale, insegna lettere.
Dal 2007 ha partecipato a più concorsi ottenendo menzioni e premi. Ha pubblicato due raccolte: “Parole come granito ” con Edizioni Il Filo e “Gesti come ricordi” con Edizioni Montag. Menzione di merito al concorso “Insieme nel mondo”, Gran premio speciale al concorso “Associazione città di La Spezia”, Primo posto al concorso di poesia e narrativa organizzato da AISM di Grosseto, quinta al concorso “Sigillo dei poeti ” e seconda nella sezione silloge con Edizioni Montag.

 

VIAGGIORITORNO A CASAPARTENZAARGO

Vado per strade lontane
Città affollate
Dove i segni dell’uomo vivono
Emozioni
Apro mondi profondi
Mi chiamano
Mi invadono
Sprofondo volentieri in loro –
Ma non sono miei –
Non mi appartengono se non un attimo fugace.

Vorrei…ma non sono –
Vorrei essere ovunque
Ogni dove vorrei mio.

Voglio restare ancor un poco a guardarti,
vecchia cascina che rovini le tue pietre solitarie.
Mi riconosci?
La cittadina che pedalava intorno alla tua aia bianca
E le ore lunghe dell’estate sull’argine piccolo
Le lucciole a confondersi con i sogni
I pensieri con le stelle
Le letture scovate in vecchi armadi
I gatti ad acchiappare topini sfortunati
La carrozza antica e noi bambini ad inventare
Avventure…
Mi riconosci, vecchia cascina lasciata a morire
Davanti al Po?

E mi allontano
Da te,
mia terra.
Mi saluta il falco
Appollaiato su un tronco,
Il volo basso fulmineo
Di un bianco airone,
il verde setoso dei campi
dicembrini,
il profumo lento dell’acqua
là ,oltre l’argine.
Me ne parto nutrita
Dal tuo calore.

Terra di mio padre,
terra ferita,
terra che non sei più –
quella che eri,
terra che nascondi
nel mio ricordo –
quella che eri.

Sei sceso inaspettato
alla nostra casa,
vecchio Argo,
e subito hai avuto
carne e biscotti .
Silenzioso ti sei assopito
sotto la frescura
del gelsomino.

…io ti osservo,
mi immagino
novella Ulisse tornata
all’isola dei padri,
guerriera placata
dal tempo
alla ricerca di una pace
serena
per avvolgervi l’animo mio
frantumato
dai pensieri.